INTERVISTE FUORI DAL COMUNE: Emanuela Daffra, Soprintendente ad interim Opificio delle Pietre Dure di Firenze

Pubblicato in Interviste, News

13 Nov 23 INTERVISTE FUORI DAL COMUNE: Emanuela Daffra, Soprintendente ad interim Opificio delle Pietre Dure di Firenze

Dirigente della Direzione Regionale Musei Lombardia, è Soprintendente ad interim all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, conosciuto come OPD, tra i più antichi e certo più prestigiosi centri di competenza per il restauro e la conservazione di opere d’arte.

Storica dell’arte, milanese, Emanuela Daffra ha ricoperto negli anni diversi incarichi importanti all’interno degli Istituti del Ministero come capo curatrice responsabile delle collezioni della Pinacoteca di Brera, vicedirettrice della Pinacoteca di Brera e funzionario di territorio per la Soprintendenza lombarda.

L’Opificio delle Pietre Dure è tra i più antichi e certo prestigiosi centri di competenza per il restauro e la conservazione di opere d’arte. Dott.ssa Daffra, che ruolo ha questa struttura per il complesso e delicato patrimonio culturale italiano?

L’Opificio delle Pietre Dure ha avuto una storia articolata. Nasce nel 1588 per volere di Ferdinando I de’ Medici come manifattura per la creazione di opere in commesso di pietra dura. A partire dalla fine dell’Ottocento trasforma i suoi compiti avvicinandosi al restauro, ampliando la sua competenza tradizionale verso altri materiali. La sua storia moderna nasce in seguito alla drammatica alluvione del novembre 1966. Una tragedia che ha però significato anche un balzo in avanti nella pratica del restauro, e nasce in seguito alla legge istitutiva del Ministero per i Beni Culturali del 1975. A seguito di questo l’Opificio ed il Gabinetto Restauri della Soprintendenza delle Belle Arti di Firenze (nato nel 1932) furono fusi, a creare l’attuale Istituto. Oggi l’attività dell’Opificio delle Pietre Dure si articola in undici settori di restauro e di ricerca individuati in base ai materiali costitutivi delle opere, e quindi ad esempio tessili, ceramiche, dipinti su tavola e tela, bronzi, oreficerie… È l’espressione dell’articolazione un patrimonio immenso: ciò da una parte ci dà la misura della ricchezza in termini di capacità dell’istituto e dall’altra di quanti sono i nostri beni culturali. E non ho citato i laboratori scientifici, l’archivio, il laboratorio fotografico. Questi settori si distribuiscono su tre sedi: quella storica in Via degli Alfani 78, la Fortezza da Basso nata con l’alluvione e la Sala delle Bandiere in Palazzo Vecchio (Laboratorio degli Arazzi).

Il prossimo 2024 si festeggeranno 50 anni dell’Opificio delle Pietre Dure come oggi lo conosciamo ed è un traguardo importante. È una storia che mette insieme sapienza artigiana e quella che ora è diventata una professione che sempre più si basa oltre che sul saper fare, straordinariamente abile, anche su strepitose competenze scientifiche, sensibilità tecnica. Essendo un luogo dove si eseguono interventi complessi, diviene anche, sul tema del restauro, luogo in cui si fa sperimentazione e ricerca, con un’attenzione costante a monitorare l’efficacia delle soluzioni proposte, a correggerle e a prestare attenzione alla durevolezza dei risultati.

Proprio per questa vocazione l’Opificio delle Pietre Dure è anche un Istituto di formazione, Scuola di Alta Formazione e Studio (SAFS) che rilascia un diploma equiparato al diploma di laurea magistrale quinquennale in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali. Occuparsi di quella che è la ricerca in atto sul patrimonio e della formazione, rende l’Opificio delle Pietre Dure uno dei cuori pulsanti della crescita del restauro in Italia.

La Pala di Fano, capolavoro di Perugino, è stata oggetto di un’epocale operazione di restauro presso il vostro Laboratorio e a dicembre “tornerà a casa” con una significativa mostra-dossier. Come si è svolto il restauro?

Il dipinto è una ancona su tavola, composta da tre parti: una pala centrale dove è raffigurata la Madonna col Bambino in trono tra i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena”, la lunetta con Cristo in Pietà e la predella con episodi della Vergine. La cornice originale si è perduta, anche per gli spostamenti cui l’insieme è stato sottoposto. Il dipinto aveva dei problemi di conservazione legati al supporto: come spesso accade queste grandi architetture in legno sono “organismi vivi” e le reazioni del legno ai mutamenti dell’ambiente possono portare a  distacchi del colore. Nell’intervento ci si è presi cura di tutti questi aspetti guidati, come è nella prassi dell’Istituto, accompagnati e seguiti da una vastissima campagna diagnostica che aveva lo scopo di comprendere bene, prima di intervenire, quali fossero i materiali utilizzati dal pittore, quali i materiali di restauri, quale tipo di degrado avessero avuto. Ma anche di conoscere le tecniche esecutive. Da anni per esempio si utilizzano indagini fotografiche, basate sull’infrarosso, che permettono di leggere quanto sta sotto la pellicola pittorica, dalle prime tracce di abbozzo, al disegno vero e proprio. È stato quindi un percorso prima di tutto di conoscenza che cercheremo di trasferire ai visitatori che verranno a Fano.

La conoscenza è poi funzionale a guidare le scelte di restauro, a capire nel modo più preciso possibile manomissioni, elementi e sostanze aggiunti, così da valutare con consapevolezza come e se intervenire per eliminarle. È un percorso complesso che ha visto coinvolte tante professionalità presenti all’Opificio: dal restauratore della pellicola pittorica a quello che si occupa dei supporti lignei al dipartimento di indagini scientifiche, agli istituti di ricerca che ci supportano. Uno staff interdisciplinare che si avvale anche di professionisti esterni ed è stato capitanato dalla storica dell’arte Sandra Rossi. Citerei tra tutti la restauratrice Anna Marie Hilling che ha seguito fin dall’inizio l’intervento su questo capolavoro di Perugino con vera passione e dedizione.

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Sono emerse nuove acquisizioni nei vostri studi?

È stato possibile precisare i modi di lavoro, anche industriali, di Perugino: come organizzava e come faceva procedere il lavoro sulla base di suoi disegni. Sono emersi dei dati sulla sequenza degli episodi della predella, che si sospettava essere stata rimontata in modo sbagliato dopo essere stata tagliata in sezioni. Inoltre, grazie a tecniche di indagine molto specifiche, si è individuata una versione precedente della composizione della lunetta, con un numero minore di personaggi e un diverso  paesaggio sullo sfondo. Sicuramente questa pala è stata un’opera meditata e portata avanti da Perugino con lentezza, con cambiamenti anche radicali dell’immagine. Tutto questo sarà raccontato per immagini in mostra.

Si sta concludendo il 2023. Ci sono altri progetti da evidenziare, curati dall’Opificio delle Pietre Dure?

Ne cito solo alcuni, in cui siamo impegnati in misura diversa, perché in realtà sarebbero moltissimi e in tutti i nostri settori. Presso la Cattedrale di Siena ci stiamo occupando del restauro delle parti bronzee e lapidee del Fonte Battesimale, uno dei capolavori assoluti del primo Rinascimento toscano, in cui lavorarono insieme Donatello, Lorenzo Ghiberti e Jacopo della Quercia. È un impegno titanico, perché si tratta anche di individuare le fonti dei danni in un fonte ancora in uso, ed individuare modi di intervento per eliminarle o minimizzarle.

Altro restauro importante in corso è quello della Cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, opera di Giotto: si prospetta come un cantiere complesso e stimolante, che rivela colori straordinariamente limpidi. Così come imprevisti sono i risultati che stanno emergendo dal Volto Santo di Lucca, questa celebre scultura di Cristo crocifisso, ritenuta scolpita da Nicodemo discepolo di Gesù e profondamente venerata. È stata oggetto di una serie di indagini sotto la direzione dell’Opificio ed ora un restauratore privato sta procedendo nel restauro vero e proprio.

Abbiamo poi due capolavori di oreficeria: l’Albero d’oro di Lucignano, un reliquiario alto oltre 2 metri a forma di albero della vita dai rami rigogliosi e che contiene, in teche chiuse da cristalli di rocca, le reliquie di vari santi. Altrettanto suggestivo è il reliquiario di Montalto, in oro, smalti e pietre preziose. Raffigura Cristo sorretto dagli angeli e proprio per la sua qualità ha avuto vicende collezionistiche eccezionali. È appartenuto a Carlo V di Francia, a Leonello d’Este, signore di Ferrara, poi al cardinale Pietro Barbo, poi a Paolo II, per finire a papa Sisto V, che volle donarlo al suo paese natale, appunto Montalto nelle Marche.

Altro elemento di orgoglio è il lavoro di coordinamento tecnico scientifico che l’Opificio sta portando avanti con un proprio progetto nel Deposito di Santo Chiodo a Spoleto, dove sono conservate le opere provenienti dai luoghi del recente terremoto in Umbria. Vi lavorano, in successione e per periodi di otto mesi, squadre di restauratori e storici dell’arte: da gennaio ad agosto di quest’anno un primo gruppo ha messo in sicurezza oltre 700 opere e ora si sta lavorando col secondo gruppo. È un lavoro capillare e molto prezioso su questa enorme quantità di oggetti, un patrimonio delle comunità colpite sui cui destini si dovrà riflettere.

Ha un obiettivo che le piacerebbe realizzare nel suo incarico di Soprintendente?

Il mio incarico è ad interim, quindi di breve durata. Nel campo dei beni culturali il tempo, invece, ha un valore importante, è necessario e non si possono bruciare le tappe. Quindi, se avessi tempo, vorrei realizzare l’ampliamento della sede dell’Opificio presso la Fortezza da Basso. Abbiamo la possibilità di razionalizzarla e ingrandirla, per accogliere anche nuove funzioni e mi piacerebbe definire questo progetto. Vorrei poi rilanciare l’attività internazionale dell’Istituto, che i grandi soprintendenti che mi hanno preceduto hanno sempre curato e che nel periodo drammatico della pandemia si è dovuta forzatamente rallentare.

Infine mi piacerebbe proprio agire modestamente da lievito per fare esprimere al massimo le straordinarie potenzialità di un “capitale umano” fuori del comune, fatto di tanti professionisti appassionati e motivati, presenti in tutti i settori, anche in quelli più ‘dietro le quinte’. Sono loro che continueranno a fare di OPD un luogo proiettato verso il futuro, fondato sul rigore di una ricerca continua.

Intervista a cura di Sara Stangoni

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